Dichiarazione di guerra al mondo da parte dell’autoproclamato Stato Islamico. Sono 44 i morti in tre diversi attentati che in rapida successione sono stati compiuti in Francia, in Tunisia e in Kuwait.
Su tutti aleggia, spettrale, la bandiera nera dell’Isis.
Nell’ordine: intorno alle 10 del mattino due attentatori hanno rubato un automezzo autorizzato all’ingresso in uno stabilimento di produzione di gas industriali vicino Lione, qui hanno ucciso barbaramente un uomo il cui corpo è stato decapitato e provato a far esplodere le bombole. Prima che l’attentato assumesse proporzioni devastanti sono stati fermati dalla sicurezza interna che ha subito catturato un uomo (già noto ai servizi di intelligence francesi) e poco dopo la Polizia francese ha catturato il secondo attentatore.
Poi in Tunisia: qui gli attentati sono stati due, simultanei. Come avvenne nel precedente attentato al Museo del Bardo. Un gruppo è entrato armato di mitra nella hall di un hotel a cinque stelle, sparando vari colpi e facendo qui confluire le forze di sicurezza, un attentatore ucciso e un altro arrestato. Ma il peggio doveva arrivare. Mentre le forze di sicurezza confluivano verso l’albergo, da alcuni gommoni un gruppo di uomini armati sbarcava nella vicina spiaggia iniziando a sparare con furia cieca verso i bagnanti intenti a prendere il sole. Il bilancio è pesantissimo (ed ancora provvisorio): 26 morti. Sulla sabbia fine un scia di sangue che lascerà per sempre il terrore negli occhi dei sopravvissuti.
Quasi in contemporanea un kamikaze si è infiltrato all’interno di una moschea a Kuwait City (dove finora l’Isis non aveva colpito), facendosi esplodere. Almeno 16 i morti fra i fedeli, non meno di 170 i feriti tutti fra i fedeli sciiti.
L’attacco simultaneo, ben tre Stati colpiti, fa pensare a una vera e propria dichiarazione di guerra dell’Isis al mondo a loro “estraneo”.
Sono la sinergia di attacco insieme alla scelta di tempi e obbiettivi che fa comprendere come finora, come già più volte ribadito anche dalle pagine del nostro giornale, il “pericolo jihadista” sia stato ampiamente sottovalutato dalle autorità nazionali e sovranazionali.
Si accusa oggi, a caldo, di mancata collaborazione fra i vari servizi di intelligence. Ma pare una scusa troppo blanda. Semmai si dovrebbe provare a comprendere cosa frena le Istituzioni internazionali nel creare un fronte comune contro un rischio che sta dilagando a macchia d’olio.
“Chi” deve cadere perché si provveda, poi, a prendere le opportune contromisure?